La crisi economica mondiale, aggravata dal Covid e dalla guerra, sta mettendo in ginocchio tante aziende. Purtroppo, non è raro leggere della chiusura di imprese o di licenziamenti per motivi economici. Ma sono sempre legittimi? Approfondiamo l’argomento.
Il licenziamento, in generale, consiste nella scelta del datore di interrompere il rapporto di lavoro con il dipendente. Quando la scelta dipende da esigenze di riorganizzazione aziendale, si parla di licenziamento per motivi economici o di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Un esempio è, appunto, l’esigenza di una azienda di fronteggiare una crisi e ridurre reparti e personale ritenuti troppo costosi.
Affinché possa essere ritenuto corretto, il datore di lavoro, per licenziare, deve verificare se all’interno dell’azienda il dipendente non possa essere ricollocato in altro ruolo. Questa modalità di ripescaggio è quella che la giurisprudenza definisce “obbligo di repêchage”.
Di fatto il datore di lavoro può anche chiedere al dipendente di svolgere compiti inferiori rispetto a quelli per i quali è stato assunto, pur di salvare il lavoratore dal licenziamento.
Il datore di lavoro deve verificare nell’organigramma dell’azienda che non si ci siano mansioni equivalenti o riconducibili allo stesso livello o categoria di assunzione. Laddove non riesca, può assegnare il lavoratore a compiti inferiori, perché l’interesse alla conservazione del posto prevale rispetto alla conservazione della professionalità acquisita.
Il datore di lavoro deve provare l’inesistenza di altri posti di lavoro nei quali ricollocare il lavoratore licenziato. Nel caso in cui proceda ad un licenziamento per motivo oggettivo per soppressione del posto di lavoro, la violazione del dovere di repêchage comporterà che il licenziamento sarà dichiarato illegittimo.
In questo caso, laddove venga dimostrata la non correttezza del licenziamento, il Giudice potrà condannare il datore di lavoro a riassumere il dipendente. Questo perché, se il fatto posto alla base del licenziamento è dichiarato inesistente, il giudice applicando correttamente la legge (1) deve disporre in favore del lavoratore la tutela cosiddetta reintegratoria attenuata.
Se ne parla quando il giudice annulla il licenziamento e ordina la reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore, con condanna del datore di lavoro al pagamento del risarcimento del danno, oltre al versamento dei contributi previdenziali, pari all’ultima retribuzione percepita e per tutto il periodo fino alla reintegrazione.
Un lavoratore viene licenziato per soppressione del posto di lavoro. Nel corso del giudizio il giudice ritiene di annullare il licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità pari a 10 mensilità, poi modificata in appello in 15. La Corte di Cassazione con una recente sentenza (2) ha ricordato che la prova del repêchage è a carico del datore di lavoro. Ritenendo mancata la prova del reimpiego del dipendente, in quanto deve essere dimostrata sia la ragione inerente l’ttività produttiva che l’impossibilità di ricollocare il lavoratore, ha dichiarato illegittimo il licenziamento perché il fatto non sussiste e condannato il datore di lavoro alla reintegra del dipendente e al risarcimento danni pari all’ultima retribuzione e fino alla ripresa in servizio.
Attraverso il repêchage il lavoratore ha la possibilità di conservare il posto di lavoro. È evidente, però, che al datore di lavoro non possono essere richieste modifiche organizzative rilevanti o stravolgimenti (2), perché il ripescaggio deve essere nei limiti della ragionevolezza. Questo vuol dire che, al contempo, non tutte le mansioni inferiori possono essere assegnate, solo quelle compatibili con le competenze del lavoratore.
