In una nota barzelletta dal titolo “l’avvocato”, recitata magistralmente da Gigi Proietti nel film “Le Barzellette”, il difensore anticipa al cliente i possibili risultati di una difesa, sottolineando quando “Vincono” e quando il cliente “perde”. È vero, perdere non piace a nessuno. E a volte la parte assistita, convinta delle proprie ragioni, ritiene che la colpa dell’esito sfavorevole del giudizio sia del suo avvocato. Quella causa non si poteva perdere! ! Eppure, l’avvocato ha correttamente espletato il mandato. Proviamo a chiarire, allora, cosa caratterizza il rapporto tra il difensore e il difeso. Prima di tutto, tra l’avvocato e il cliente, con il conferimento dell’incarico, si conclude un contratto.
Non bisogna fare confusione. La procura (1) è lo strumento con il quale il difensore viene investito del potere di rappresentare la parte in giudizio. È redatta per iscritto, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata.
Il mandato (2) è il c.d. contratto di patrocinio, con il quale l’avvocato è incaricato di svolgere la sua opera professionale per il cliente. Può essere conferito anche senza procura, essendo quest’ultima necessaria solo per l’attività processuale. Per comprendere, può succedere che chi conferisce il mandato (cliente) sia diverso da chi conferisce la procura (assistito). Pensiamo al genitore che chiede all’avvocato di difendere il figlio.
Per come chiarito dalla giurisprudenza, il cliente non coincide necessariamente con l’interessato dalla prestazione intellettuale, ma è colui che, conferendo l’incarico al professionista, è tenuto al pagamento del compenso (3).
La prestazione dell’avvocato è cosiddetta di mezzi e non di risultato. L’avvocato svolge un’attività a prescindere dal conseguimento di un determinato obiettivo. In altre parole, l’avvocato non garantisce il risultato, per cui non sarà responsabile se non raggiunge, ad esempio, la vittoria della causa.
Non sempre. Infatti l’avvocato, chiamato alla prestazione di mezzi e non di risultato, deve adempiere il proprio mandato senza violare il dovere di diligenza.
L’obbligazione “di mezzi” costituisce, in sostanza, una “obbligazione di comportamento”, che sarà valutata rispetto ai doveri di diligenza media inerenti lo svolgimento dell’attività professionale (3).
L’esito del giudizio, anche se sfavorevole, non spiega alcun effetto sull’attività svolta dall’avvocato. Non si può giudicare il professionista sulla valutazione di utilità ritenuta dal cliente. Perchè non è una prestazione di risultato. Sarà responsabile se, per negligenza o imperizia, compromette l’esito del giudizio. Ad esempio, non sarà responsabile se adempie al mandato ma l’esito del giudizio è negativo per un contrasto giurisprudenziale sul caso. Sarà potenzialmente responsabile, però, se non avverte il cliente della possibilità di proporre appello, facendo scadere il termine decadenziale.
Serve un’ulteriore precisazione. Rispetto a quanto indicato, recenti interventi giurisprudenziali hanno chiarito che l’affermazione di responsabilità del professionista, conseguente all’omissione di un comportamento elementare, come il mancato deposito di un documento, il mancato appello o la decorrenza di un termine, deve essere sempre accompagnata dalla prova a carico dell’assistito che quella attività avrebbe comportato un vantaggio (4).
L’avvocato deve improntare la sua condotta nel rispetto dei doveri di correttezza e buona fede, mantenendo un comportamento leale, che si specifica nei doveri di informazione, avviso, nella salvaguardia dell’utilità altrui nei limiti dell’apprezzabile sacrificio. La violazione di questi doveri integra profili di responsabilità (5). Ma anche quando il professionista omette attività elementari, il cliente dovrà sempre dimostrare il difetto della prestazione, il rapporto di causalità e il danno causato nel mancato vantaggio conseguito. In difetto di tale prova (6), non potrà affermarsi la responsabilità dell’avvocato. Un errore non giustifica il risarcimento.